USCITA 43/EXIT 43
The introduction to our performance at Corto Circuito tonight, in Italian: Queste partiture “pop-up” fanno parte di un progetto in corso, intitolato Uscita 43, che è composto di elementi poetici, visivi, e sonori. Lo descrivo come un’archeologia di paesaggi tossici e afflitti, e un’operetta di cori “pop-up” (prendendo il termine usato per le finestre “pop-up” di internet, che ti buttano in faccia messaggi involuti, soprattutto pubblicità).
Ho cominciato a scrivere queste poesie sulla tossicità sei anni fa quando, dopo aver abitato per anni tra il Giappone e l’Italia, e in altri stati americani come la Virginia e la bellissima e evidentemente purissima California del Nord, sono tornata al paese della mia fanciulezza, a Long Island, che fa parte delle vaste periferie di New York City. In effetti non si può definire questo “paese” come tale, perché tutti i paesi lungo l’autostrada che ti porta da Manhattan agli Hamptons di lusso si identificano a seconda del numero dell’uscita dell’autostrada piuttosto che in base a qualunque punto fisso geografico. Sicché, quando sono tornata in macchina dopo vari anni, cercando casa mia, non mi ci trovavo più, perché avevano risistemato l’autostrada. Ero in crisi.
In quel periodo mia madre faceva la radioterapia e la chemioterapia per il cancro, come moltissime altre donne malate di cancro in quella zona, un cosiddetto “grappolo del cancro”. E ho scoperto, facendo un po’ di ricerche sull’ambiente di Long Island, Brooklyn, Queens, e tutta la zona circostante, che una grande ditta, una fabbrica di cavi, gestita da una ricchissima famiglia di Chicago – i benefattori dei prestigiosi premi mondiali per l’architettura, e degli ospedali, incluso l’ospedale dell’Università dove attualmente lavoro – aveva scaricato migliaia di tonnellate di fanghi tossici a due passi da casa mia. Avevano addirittura chiuso la scuola elementare dietro casa mia dopo la mia partenza per l’università per tappare la discarica accanto, perché era troppo rischioso per gli alunni passare giorni interi in quella zona, dove avevo giocato da bambina. Quindi ho cominciato a scoprire come questo luogo della mia infanzia, che sarebbe – secondo i luoghi comuni dell’infanzia – un posto mitico e puro, era stato da sempre contaminato e in qualche modo infernale.
Condurre un’archeologia dei rifiuti della modernità costituisce una ricerca inquietantemente intima e che allo stesso tempo tocca tutti. Le sono legata in modo particolare perché miei antenati vennero a Manhattan dai paesi intorno a Napoli (gli stessi che stanno vivendo l’incubo dell’immondizia e dei campi contaminati dall’ecomafia) per lavorare nel campo del salvage (recupero della roba usata). D’altro canto, da studentessa ho partecipato ad uno scavo a Morgantina dove ho recuperato una piccola Proserpina di terracotta da una cisterna che anticamente era stata trasformata in discarica, un’esperienza del sublime storico che mi ha cambiato la prospettiva della vita attuale.
Questo progetto cerca di effettuare, di realizzare, una tortuosa trasmissione e traduzione di quelli che sono i costi del consumismo e del capitalismo rapace—ormai mondiale—attraverso il testo poetico, attraverso una sorta di trascinamento del lirismo per vie post-pastorali, di conseguenze trascurate.
La poesia seriale da cui vengono queste partiture è composta di tante voci contrastanti che emergono dalla terra, dal mondo sotterraneo di un’Alice che ingenuamente cerca di conoscerlo e comprenderlo. Tra le voci, che si confondono e che creano delle dissonanze e canzoni inconsapevoli tra loro, ci sono quelle del poeta vittoriano che cerca di comporre una poesia pastorale; del C.E.O., la voce della ditta, della corporazione, del doublespeak; dell’E.P.A., l’associazione statunitense dedicata alla protezione dell’ambiente, che elenca i siti più tossici dell’America tra cui c’era quello presso casa mia, e che pubblica i risultati delle proprie ricerche, identificando i contenuti invisibili della terra e delle sostanze dannose ma spesso arrivando a conclusioni ambigue o incerte; e dell’ingenua bambina che si trova nel paese delle meraviglie, nella Malice o ‘malizia’ di Alice, che cerca o un punto di origine del caos che scava, oppure una via di fuga che non sia di quelle già numerate, “sistemate”.
Queste voci che si incontrano e si scontrono tendono a creare frasi che suonano ‘bene’, liricamente, come se fossero armoniose tra loro, ma che creano confusione, perché alla fin fine quando sono messe insieme risultano contradittorie o paradossali o addirittura danno origine a dei non-sensi che riflettono le logiche e i lapsus della società egemonica (fenomeno che capita nei testi di Lewis Carroll, da cui ho sottratto e mixato le logiche o pseudo-logiche).
Collaborando per alcune performances di queste partiture con i musicisti del Difforme Ensemble e con le mie colleghe dell’American Academy a Roma, ho cercato di recuperare la bellezza dove ci appare solo la tragedia.